testo di Aniello Ertico Presidente Porta Cœli Foundation
Nulla più della pratica artistica sembra essere naturalmente vocato alla scrittura del mito. In tal senso la contemporaneità dell’arte, quando esiste, assume una postura naturalmente audace e formalmente adatta alla scrittura del mito che il futuro adotterà, forse.
I processi evolutivi che hanno interessato, con rapidità mai prima registrata, ogni specifico o generale assetto dell’esistenza, rivelano anche le nuove problematicità in merito anche solo alla definibilità dell’arte, sia in termini di grammatica espressiva che di funzione.
L’approccio all’argomento è possibile, senza rischiare derive retoriche, soltanto ribaltando le prospettive, ossia tralasciando le definizioni dell’arte e interessandosi alla funzione che la stessa garantisce rispetto a uno scopo possibile: l’efficacia espressiva nella resa di senso nell’ambito di una funzione di pubblica fruibilità.
Dopotutto, il mito, tra metafore figurative e ricorsi continui all’emblematico, ha il pregio di fornire all’ignoto e all’etereo un volto possibile, un nome plausibile e una efficacia assoluta.
Non si creda che il ricorso al mito sia desueto: il tempo corrente è saturo di una mitologia! Una mitologia che, tuttavia, appare esorcizzata da qualsivoglia elemento di perturbazione possibile; una mitologia adottata per assolvere al ruolo salvifico, talvolta soporifero, della pacificazione dell’Io al cospetto delle incognite tradizionali. Il mito dell’oggi è incarnato, per esempio, dall’infallibilità dei mercati, all’affidamento incondizionato alla tecnologia, dalla specialissima sensibilità di coloro che per il semplice fatto d’aver pianto un paio di volte da bambini ritengono di possedere una straordinaria dotazione emotiva, dall’etichetta democratica che asseconda l’illusione del protagonismo compiuto pur senza alcuna partecipazione ai processi decisionali.
Soprattutto, il mito prevalente di questo tempo è quello che la propria idea sia corretta, giusta ed equa, meritevole di difesa strenua poiché possibile germe del manifesto da adottare per salvare il pianeta.
La novità del mito risiede nell’ambizione di essere noi stessi il mito. Nulla di intollerabile se non fosse per il rischio che tale saturazione dell’ambizione suggerisce: tra le tante idee sbagliate che pervengono all’autocelebrazione in totale assenza di pensiero critico, qualcuna diventa mito. Un mito sbagliato.
Siamo nel tempo della mitologia senza senso, quella che crolla dalle fondamenta al primo confronto, quella che ponendosi come didascalia per l’immenso si rileva solo radiografia di profondissime fragilità e di grossolane improvvisazioni.
Perveniamo così a motivare l’uso e l’abuso di terminologie deconcettualizzate e spesso del tutto decontestualizzate: l’identità, la resilienza, il potenziale, la vocazione, il talento…! Ricorsi utili a preannunciare un esito che, puntualmente, tarda a verificarsi sino a svanire, fatalmente e mitologicamente, nell’inconsistenza a cui la mitologia contemporanea è condannata. Si dirà ingiustamente.
Esiste probabilmente un antidoto a tale sortilegio, un sofisticato intruglio di pensiero critico e talvolta impopolare che si avvale di strumenti per taluni misteriosi poiché del tutto sconosciuti. Uno tra questi, per esempio, abbandonato nella cantina degli intellettuali con gli scrittoi impolverati, è la semantica. Se utilizzassimo la semantica, per esempio, potremmo certamente capire che l’identità non è una patente di unicità che deteniamo per diritto di nascita: essa necessita di un riconoscimento sociale ampio per potersi determinare e non ridursi al rango di autoproclamazione. La resilienza non è una virtù umana ma una prerogativa delle argille, tipicamente condannate a subire gli eventi e non certo a determinarli. Il potenziale che non viene sostenuto dalla abilità prima che dalla competenza e che non viene espresso in un crescendo parabolico di sacrificio e turbamento si risolve in una fotografia bellissima mai scattata: corredo assolutamente inutile anche solo per alimentare i rimpianti. La vocazione, quella che pensa di bastare a se stessa, si declina presto in termini di spreco. Il talento, nella sua specifica etimologia, si misura su bilancia a doppio braccio: il mio talento rispetto a chi? Il talento è una dotazione, certo, ma diventa virtù solo se il braccio della bilancia pende dal mio lato avendo un contrappeso.
Nessuno è talentuoso su una bilancia che pesa solo se stesso.
Tornando al ruolo/funzione dell’arte contemporanea abbiamo scelto di sondare una via inedita: quella dell’umiltà. Non proponiamo opere, intese come manufatti. Proponiamo il risultato espressivo di tensioni soggettive, di esperienze forse non replicabili, di processi curatoriali che hanno prodotto evoluzioni personali prima che tecniche e stilistiche. Esponiamo una soggettività che si candida a un riconoscimento esclusivo, a un’attribuzione identitaria che arrivi da un pubblico ignoto. Presentiamo un’opportunità di contaminazione delle pratiche artistiche consolidate con le avanguardie più audaci per coltivare motivazione ed evoluzione prima che vocazione. Generiamo occasioni di incontro tra artisti, molteplici braccia di bilance in grado di evidenziare talenti. Una bilancia in cui il contrappeso alla prima pesa aspira a diventare talento alla successiva chiamata. Un dispositivo senza la pretesa di produrre maree invadendo sponde limitrofe.
Piuttosto, come in un mare calmo, che bagna sponde solo apparentemente lontane, ci proponiamo come piattaforma mediana e accogliente. Abbastanza vicina a ogni riva affinché nessuno si senta straniero. Questa piattaforma che chiamiamo Mediterranean Contemporary Art Prize, sbarca a Vicchio, terra di Giotto, porto sicuro, vocato alla produzione di miti moderni al cospetto dei quali anche Medusa sbatterà le palpebre e per qualche secondo potrà farsi ritrarre. Un tributo della Lucania greca alla Toscana senza tempo.